Con una interessante sentenza la Suprema Corte ha dichiarato quanto potrebbe sembrare ovvio ma che, evidentemente, ovvio non era, dato che il provvedimento ha cassato quanto contrariamente deciso in grado di appello ed in primo grado.
In una complessa vicenda fattuale, concernente un lavoratore appartenente ad una categoria protetta, il quale aveva rifiutato una proposta di lavoro contenente un patto di prova (da lui ritenuto illegittimo) e, successivamente, accettato a mezzo fax una seconda proposta senza tale patto, il tribunale di Milano aveva dato torto al lavoratore che, presentato appello, aveva ottenuto la classica “vittoria di Pirro” poiché la Corte, in riforma della sentenza di primo grado, aveva sì ritenuto perfezionato il contratto di lavoro, ma aveva poi condannato il datore di lavoro ad un risarcimento minimo, rivendendo che il compimento (dopo alcuni anni) dell’età pensionabile (65 anni) avesse comportato il venir meno del diritto alla conservazione del posto.
Analizzata la sentenza d’Appello l’abbiamo ritenuta impugnabile avanti la Suprema Corte, ottenendo la sentenza che pubblicata in data odierna (che allego).
A nostro parere infatti il rapporto di lavoro era concluso e, non essendoci stato alcun licenziamento, che sarebbe stato comunque illegittimo non avendo il dipendente tutti i requisiti di legge per l’ottenimento della pensione, il Giudice di Merito non avrebbe dovuto trarre le conseguenze interruttore del rapporto.
Secondo la Suprema Corte un contratto concluso e perfezionato tra le parti, di cui il contratto di lavoro costituisce solamente una specifica tipologia, è sempre vincolante e può essere sciolto solo in virtù di una manifestazione di volontà reciproca, oppure legata a sopravvenuti fatti aventi efficacia risolutoria.
La conseguenza che il Giudice di merito doveva trarre dall’intervenuta conclusione del contratto di lavoro, dispone la Corte di cassazione, non poteva che essere una: “la condanna delle parti all’adempimento delle obbligazioni che dal medesimo derivano; e ,pertanto, quanto al datore di lavoro, la condanna all’accettazione delle prestazioni lavorative e al pagamento della retribuzione (art. 2094 c.c.)“.
Ma la Corte precisa altresì “l’insufficienza del mero dato anagrafico a determinare il venir meno del diritto alla conservazione del posto di lavoro, in difetto del contestuale possesso dei necessari requisiti di anzianità contributiva”.
La Suprema Corte cassa quindi la sentenza d’Appello rinviando il giudizio per la determinazione della Sentenza che tenga conto di quanto disposto nella parte motiva sub.19/20 e quindi la conclusione del contratto di lavoro originario con il pagamento, da parte del datore di lavo, di tutte le retribuzioni e contribuzioni sino ad oggi maturate in difetto di licenziamento.
Corte di Cassazione Cass. 30697/17